Per le vie di Al-Khalīl (Hebron, Cisgiordania) – foto e video

Al-Khalīl – La città si trova a circa 30 km a sud di Gerusalemme lungo la dorsale dei monti della Giudea.

La presenza dei coloni è duramente condannata dei palestinesi, nonchè da alcuni governi esteri e dalle Nazioni Unite per i quali la presenza di ebrei è una violazione delle leggi internazionali.

Pillole di storia:

1917 – Occupazione britannica.
1929 – Scontri in Palestina tra coloni e la popolazione araba preesistente. La popolazione ebraica venne spostata a Gerusalemme al termine delle tensioni.
1949 – La legione araba occupò Hebron ed il resto della Cisgiordania, controllo mai riconosciuto dall’ONU ma solo da Gran Bretagna e Pakistan.
1967 (guerra dei sei giorni) – Un gruppo di sionisti che si fingevano turisti, guidati dal rabbino Moshe Levinger, occuparono il principale hotel di Hebron e in seguito una base militare abbandonata fondando l’insediamento di Kiryat Arba.
1979 – La moglie di Levinger guidò un gruppo di trenta donne ad occupare l’edificio abbandonato che fino ad allora aveva contenuto l’ospedale Beit Hadassah nel pieno centro di Hebron. In seguito l’azione ottenne l’approvazione del governo israeliano e successivamento l’enclave ebraica all’interno della città ottenne il sostegno dell’esercito.
1994 – Baruch Goldstein, un membro di origine statunitense dell’organizzazione della Lega di Difesa Ebraica, medico ed ex ufficiale dell’esercito, penetrò nella moschea e trucidò a colpi di fucile mitragliatore decine di musulmani impegnati nella preghiera canonica.
2005 – Da questo momento in poi il processo di espansione della presenza ebraica non ha più avuto freno e a oggi si contano più di venti insediamenti in città e nei dintorni.
2017 – La città oggi si presenta suddivisa in parti differenti, molte delle quali sotto il controllo israeliano. Checkpoint, mura e filo spinato caratterizzano le sue strade. I quartieri fantasmi che si incontrano sono quelli strappati alla popolazione palestinese.

Combattere il cancro a Gaza

Il cancro è un male che se non preso in tempo diventa incurabile. A Gaza, tumori che in Occidente potrebbero essere trattati facilmente, si traducono in una condanna a morte. La condizione di assedio perenne, infatti, non permette ai malati di uscire per ricevere le cure necessarie o di accedere a strutture specializzate: in tutta Gaza non esiste una sola clinica che offra servizi e competenze in questo senso.

Ogni mese si registrano 130 nuovi casi e non ci sono associazioni o enti governativi internazionali che si mobilitino per sostenere la lotta di chi combatte il cancro dentro a Gaza.

Siamo stati nel centro di aggregazione per le malate oncologiche, un  luogo di incontro, svago e socialità per vivere insieme le difficoltà di questa malattia, condividere momenti duri e momenti più spensierati. “Essere malati di tumore nella Striscia di Gaza significa pensare alla morte ogni giorno”, queste le parole della coordinatrice del centro. La condivisione è quindi la chiave in un luogo che non dà possibilità di sopravvivenza. Nemmeno quando si parla di cancro.

Lasciamo a queste donne la parola, e invitiamo al sostegno, morale ed economico, perchè il diritto alla salute è inalienabile e universale.

Following Vivian Maier [in Gaza]

Come superare queste barriere fisiche e politiche utilizzando la nostra quotidianità senza scadere nell’ormai incontrollata quantità di materiale fotografico che viene caricato ogni secondo sui social network?

Con questa domanda abbiamo aperto la discussione al Centro Italiano VIC a Gaza, cercando di costruire una narrazione condivisa di quelli che sono gli strumenti utili per uscire da questo stato di assedio permanente.

Per farlo ci siamo posti la domanda di quale potrebbe essere un ottimo esempio di fotografia semplice e umana.

Vivian Maier è stata scelta come punto di partenza del nostro workshop.

Un’ umanità che traspare da ogni sua foto, una delicatezza che ha subito catturato la nostra attenzione.

Per raccontare la quotidianità di questo luogo è necessario strutturare l’uso di un linguaggio chiaro e disciplinare gli scatti.

Nella miriade di foto possibili, grazie all’utilizzo dei nuovi dispositivi digitali, preservare la qualità è necessario per sviluppare un discorso che possa sfondare quelle frontiere che rendono Gaza la più grande prigione esistente.

L’utilizzo di Vivian come mirabile esempio apre però una grossa contraddizione, dal momento che lei voleva mantenere privata la sua vita mentre noi vogliamo utilizzarla come esempio di possibile narrazione visiva.

Restiamo un po’ perplessi rispetto alla “violazione” pubblica fatta dopo la scoperta di tutto il materiale di una vita e questo fa si che si apra un’altra interessante discussione su come gestire la pubblicazione dei contenuti delle nostre quotidianità, ora che i social permettono a tutti noi di essere visti dal mondo intero.

Non ci addentreremo molto nella profondità di quanto discusso, certo possiamo dire che qui, soprattutto per le donne, il limite è un confine difficile da valicare, specialmente quello dell’intimità.

Vivian in questo ci aiuta rispetto alla profonda empatia che si prova nell’osservare il racconto della sua vita tramite gli scatti ritrovati, cercando di traslare la stessa sensibilità nei nostri obbiettivi.

Partendo da questa breve introduzione cerchiamo quindi di trovare nei nostri scatti una forma di emancipazione possibile, che liberi idealmente questo luogo.

Utilizzando la tecnica del self-portrait cercheremo di raccontare gli spazi di libertà per poter sviluppare un desiderio comune, liberarci e liberare questa terra.