Il cancro sotto l’assedio

Il cancro è un male che se non preso in tempo diventa incurabile. Nella Striscia di Gaza, tumori che in Occidente potrebbero essere trattati facilmente si traducono in una condanna a morte.
La condizione di assedio perenne, infatti, non permette ai malati di uscire per ricevere le cure necessarie o di accedere a strutture specializzate: in tutta Gaza non esiste una sola clinica che offra servizi e competenze in questo senso.
La Striscia di Gaza ora è uno dei territori più inquinati al mondo. Non ci vuole molto per immaginare quanto possa esserlo considerate tutte le operazioni militari, le guerre e le sperimentazioni chimiche (es. operazione Piombo Fuso), succedutesi durante gli ultimi anni. Ogni mese si registrano 130 nuovi casi e non ci sono associazioni o enti governativi internazionali che si mobilitino per sostenere la lotta di chi combatte il cancro dentro a Gaza.
Siamo stati nel centro di aggregazione per le malate oncologiche che rispetta il programma “Aid and Hope Program for Cancer Patient Care”, un  luogo di incontro, svago e socialità per vivere insieme le difficoltà di questa malattia, condividere momenti duri e momenti più spensierati.
“Essere malati di tumore nella Striscia di Gaza significa pensare alla morte ogni giorno”, queste le parole della coordinatrice del centro Eman Shannan. La condivisione è quindi la chiave in un luogo che non dà possibilità di sopravvivenza. Nemmeno quando si parla di cancro.
Lasciamo a queste donne la parola, e invitiamo al sostegno, morale ed economico, perché il diritto alla salute è inalienabile e universale.

C. Quante sono le persone ammalate di cancro a Gaza?

E. Il numero attuale è di 16.400 ammalati in totale, e ogni mese ci sono 130 nuovi casi.

C. In tutta la Striscia ci sono dei centri specializzati per curare questa malattia o, se non ci sono, come fanno le persone ammalate a procurarsi le cure adeguate al di fuori dell’ospedale?

E. Queste cure non sono disponibili all’interno di nessun ospedale di Gaza, ed è anche impossibile riuscire a trovarle in autonomia. Questo è il motivo per cui la maggior parte dei nostri ammalati oncologici cerca di passare il confine quasi ogni giorno e di farsi curare negli ospedali della Cisgiordania.

C. Cosa significa essere un ammalato oncologico in Gaza?

E. Significa pensare alla morte ogni singolo giorno. Le condizioni per guarire da questa malattia o riuscire a conviverci in maniera cronica sono praticamente inesistenti: non abbiamo accesso alle cure e i valichi da attraversare per arrivare agli ospedali specializzati chiudono (es. Rafah, a sud) o sono sempre più difficili da attraversare (es. Erez, nord, territorio israeliano). Riuscire ad ottenere il permesso per arrivare a Gerusalemme e West Bank è molto dura anche se hai un cancro!

C. Quante sono le persone che muoiono a causa di queste condizioni?

E. Sono tantissime, tutte quelle a cui non viene dato il permesso per uscire dalla Striscia quando ne hanno bisogno. Quello che mi fa rabbia è che il diritto alla salute è riconosciuto in tutto il mondo come uno dei diritti inalienabili dell’uomo. Qui nella Striscia di Gaza no! L’accesso alla salute ci viene spesso negato e credo che questa situazione vada denunciata pubblicamente.

C. In che modo fate sentire la vostra voce?

E. Abbiamo organizzato e pianifichiamo molte proteste. Per esempio, negli ultimi giorni siamo andati a farci sentire davanti al “Civil Office”, che è l’Ufficio responsabile del coordinamento dei pazienti gazawi e israeliani, oppure spesso andiamo alla sede della Croce Rossa di qui o davanti al Dipartimento del Ministero della Salute.

C. Con i media nazionali o internazionali in che rapporti siete?

E. Siamo in contatto con alcune televisioni e radio locali e a volte contattiamo/siamo contattati da media internazionali; ma vogliamo far sentire la nostra voce sempre di più.

C. Ci sono delle organizzazioni nazionali o internazionali che vi stanno aiutando a migliorare questa situazione o a ricevere le medicine, per esempio?

E. Attualmente nessuna. Riceviamo solo delle donazioni da organizzazioni locali (gazawe) o da enti privati, a volte.

C. Secondo te la situazione riuscirà a migliorare grazie alla vostre proteste?

E. Lo spero tanto.

Cronache dalla striscia di Gaza.

Khuloud Abu Qamar parla con calma, ma le sue parole sono pesanti. “Israele mi sta uccidendo lentamente. Uccide me e vuole uccidere anche i miei figli”.

Dopo aver subito un intervento chirurgico per il tumore al seno l’anno scorso, Abu Qamar ha richiesto un’ulteriore operazione che gli ospedali di Gaza non riescono a garantire. Ha chiesto a Israele il permesso di uscire dalla Striscia ma fino ad ora le sue richieste sono state respinte. Abu Qamar ha 40 anni e sei figli, il più giovane dei quali è ancora un bambino.
La sua situazione è simile a quelle di moltissime persone a Gaza. Secondo le stime del Ministero della Sanità locale ci sono diverse centinaia di donne con cancro al seno che non hanno avuto la possibilità di poter uscire e avere delle cure mediche adeguate.
La quasi totalità delle forme tumorali è impossibile da curare all’interno della Striscia di Gaza, gli ospedali non sono attrezzati e il personale medico non può far altro che utilizzare delle terapie farmacologiche per alleviare i dolori.

Israele si promuove come uno dei migliori stati al mondo in cura e prevenzione del cancro al seno. Con una“delicata” campagna comunicativa, il Ministro della Salute di Tel Aviv promuove la giornata di prevenzione dei tumori al seno colorando di rosa alcuni caccia bombardieri. Le donne di gaza osservano con sdegno l’irriverente iniziativa.

Abu Qamar dice: “Io non voglio morire”.

Anche ad Alaa Masoud, una madre di 25 anni che vive nel campo profughi di Jabaliya, è stato diagnosticato un cancro al seno. I medici, per cercare di arginarlo, hanno dovuto rimuoverle il seno destro; hanno dichiarato poi che Alaa avrebbe bisogno di essere visitata dal personale medico che lavora in Cisgiordania.

Finora, sono state inoltrate cinque richieste per poter attraversare il valico israeliano di Erez. Tutte e cinque le richieste di autorizzazione sono state rifiutate.                      Il costante rifiuto ha esacerbato la sua sofferenza e aggravato la cartella clinica di Alaa, la quale a causa della sua condizione ha smesso di allattare il suo piccolo Amir.

“Io non voglio morire”, dice. “Voglio vedere il mio bambino crescere”.

Il valico di Erez resta purtroppo l’unica possibilità per uscire dalla Striscia.
Se fino a poco tempo fa molti pazienti potevano varcare il confine egiziano per curarsi, oggi la quasi totale chiusura del valico di Rafah ha fatto sì che il numero dei palestinesi in cura in Egitto sia calato drasticamente.

Alcune associazioni per i diritti umani hanno documentato come Israele cerca di ricattare i palestinesi che sono gravemente malati. Ai pazienti viene detto che se hanno bisogno di curarsi fuori dalla Striscia devono diventare informatori per l’agenzia di intelligence israeliana Shin Bet.

Dalia Abu Skhaila, 34 anni, malata di cancro al seno, ha raccontato che gli agenti israeliani a Erez hanno cercato di reclutarla come informatore. Dopo il suo rifiuto le è stata negata la possibilità di varcare il confine.

“Preferisco morire qui piuttosto che tradire il mio popolo”

Educazione alla prevenzione.

Nonostante le barriere che Israele impone, gli operatori sanitari nella Striscia di Gaza stanno cercando di aumentare la consapevolezza riguardo al problema del cancro al seno.
Secondo Khaled Thabet, che dirige il dipartimento di oncologia di al-Shifa, una delle principali problematiche è che il cancro al seno viene diagnosticato in fase avanzata, riducendo di molto le possibilità d’intervento. Per aiutare la diagnosi precoce, lui e altri medici hanno avviato una campagna che incoraggia le donne a sottoporsi ai test per il cancro al seno.

Hala al-Talmas, una donna di 35 anni proveniente dal campo di Jabaliya, continuava a rifiutare di sottoporsi a un check-up, quando ha cominciato ad avvertire lievi dolori al seno destro, soprattutto di notte.
Un’amica con la quale si è confidata l’ha spinta a farsi visitare da un medico. Hala ha continuato a posticipare la visita, attendendo altri due mesi. I dolori peggioravano e al tatto percepiva un nodulo.                                                                                        Disse dunque tutto a sua madre: la portarono in ospedale e le venne diagnosticato un cancro.                                                                                                                           Quando un medico le chiese perché avesse aspettato così a lungo, lei rispose che aveva avuto paura.
Con l’aiuto della sua famiglia riuscì a raccogliere abbastanza soldi per un’operazione. Il suo seno fu rimosso.
Hala iniziò la chemioterapia subito dopo l’intervento.
Morì dopo una settimana a causa di un ictus.

“Avrei voluto che mia figlia fosse consapevole del rischio di una mancata prevenzione” ha detto Hania, la madre di Hala.

Medicina sotto assedio

Il cancro al seno è una delle principali cause di morte tra le donne di Gaza: secondo il Ministero della salute sono stati rilevato quasi 750 casi di cancro al seno solo nel 2015.
Il governo di Gaza dice di aver disposto alcune lezioni nelle scuole dedicate alla prevenzione.
Sono stati fatti dei sondaggi su un campione di 200 donne di età compresa tra i 25 e i 65 anni per capire se queste lezioni venissero frequentate realmente. Circa il 90% delle donne ha detto di no.
Le autorità sanitarie di Gaza stanno lottando per far fronte alle conseguenze dell’assedio israeliano che dura da quasi un decennio.
I macchinari ospedalieri vengono quasi sempre bloccati e le medicine vitali scarseggiano.

“Conosciamo bene i problemi della sanità all’interno della striscia di Gaza”, dice il primario del dipartimento di oncologia, “questi problemi sono causati dalla scarsità di denaro e dalla mancanza di infrastrutture e macchinari adatti alle cure mediche. Abbiamo bisogno di più ospedali, di personale medico e di centri per l’educazione alla salute.”

fonte: Sarah Algherbawi electronicintifada, progetto 6220km2

 

Foto: Progetto 6220km2

Siamo dentro!

Scriviamo al termine una lunga giornata che ci ha portati fino a qui, nella Striscia di Gaza.
Per molti è il terzo anno, per alcuni il primo.
Per tutti però è palpabile la sensazione di estraneità che si prova nel momento in cui si intraprende il cammino del valico di Erez, il serpentone di sbarre d’acciao che ti conduce in uno dei luoghi più isolati al mondo. Si potrebbe essere tentati di definire Eretz banalmento un “non-luogo” ma, in realtà, lo caratterizzano i suoi dispositivi elettronici di controllo, gli addetti alla sicurezza nei loro gabbiotti di plastica, i metal detector…
Erez non è dunque un non-luogo, né è assimilabile a nessun altro spazio: è IL LUOGO da attraversare per arrivare dove pochi sono riusciti ad arrivare o da cui pochi sono riusciti a uscire. Erez è esattamente la barriera che segna la fine e l’inizio dell’assedio, la porta per una terra che l’occupazione schiaccia tra l’esistere e il non esistere.

Dopo quasi due chilometri di via ferrosa, si arriva finalmente alla parte palestinese…
L’accoglienza tra le migliori al mondo, l’odore di ceci e spezie solletica l’olfatto, le prime case ricostruite al confine.

Siamo dentro.

Dopo un breve incontro con i partner con cui realizzeremo il progetto, stabilita l’agenda di questi nove giorni, ci prepariamo alle giornate che ci aspettano. Iniziamo da qui. Iniziamo da Gaza e dai suoi spazi di libertà e continueremo a percorrere il ponte che ci porterà in Cisgiordania, un ponte che passo per passo costruiremo con la popolazione.

… to be continued